Riflessioni sul documentario di Sepideh Farsi
Il 27 novembre arriva nelle sale il documentario “Put Your Soul on Your Hand and Walk”, una produzione di Sepideh Farsi, che offre uno sguardo profondo sulle sofferenze del popolo palestinese. Attraverso le immagini e le testimonianze della fotoreporter FATMA HASSON, il film riesce a catturare l’essenza della vita nella Striscia di Gaza, mettendo in luce la brutalità della guerra e le atrocità vissute quotidianamente.
La regista Farsi, originaria dell’Iran, intraprende un percorso tanto semplice quanto potente per raccontare la complessa realtà palestinese. Nel 2024, Farsi si dirige verso il confine tra Egitto e Palestina, ma trova le porte chiuse davanti a sé a causa del conflitto. Tuttavia, riesce a stabilire un contatto con FATMA HASSON, una giovane fotoreporter attualmente bloccata a Gaza. Attraverso videochiamate, si sviluppa un legame umano tra le due donne, condividendo le esperienze e le difficoltà della vita sotto assedio.
Una testimonianza straziante di vita e speranza
“Put Your Soul on Your Hand and Walk” rappresenta un racconto toccante che mette in risalto la quotidianità tra le macerie di Gaza e il desiderio di normalità in un contesto segnato dalla guerra. Sebbene destinato a essere un documento di speranza e testimonianza, il film assume una dimensione tragica poiché FATMA HASSON perde la vita insieme alla sua famiglia in un raid aereo israeliano, il giorno dopo l’annuncio della premiere a Cannes nel 2024.
L’opera di Farsi si distingue per la sua capacità di ritrarre una situazione insostenibile e di esprimere la disumanizzazione del popolo palestinese. Farsi sottolinea come questa disumanizzazione sia alimentata da una disparità di potere e dalla narrativa presente nei media. Il confronto tra le vite degli israeliani e dei palestinesi è inquietante, manifestando un’ingiustizia intrinseca nei rapporti di forza e nella costruzione della realtà.
Il ruolo dei media e la lotta per la verità
Nel suo discorso, Farsi pone una forte enfasi sull’assenza dei media nei confronti della questione palestinese. Critica apertamente il modo in cui i giornalisti palestinesi sono trattati e definisce la loro narrazione come spesso influenzata dalla propaganda. La filmmaker afferma che, per comprendere la situazione, è necessario avvicinarsi alla realtà attraverso gli occhi di chi vive direttamente queste esperienze traumatiche.
Farsi, che vive in esilio a Parigi dopo aver subito prigionia in Iran, condivide la sua esperienza personale di oppressione. Questo bagaglio emotivo si intreccia con quello di FATMA HASSON, creando così una connessione profonda tra le due donne. La regista parla della sua consapevolezza riguardo ai rischi di essere un professionista della fotografia in contesti di conflitto e menziona anche la perdita di una compagna durante la sua gioventù. La sua esperienza di vita arricchisce il racconto, rendendolo ancora più autentico e toccante.
Un appello alla coscienza collettiva
Farsi evidenzia l’importanza della libertà di informazione e della necessità di ridare umanità a un mondo in cui la violenza e l’oppressione sembrano prevalere. Le sue parole rappresentano un invito a riflettere sulla condizione dei giornalisti in zone di conflitto e sul rispetto per chi, come FATMA HASSON, ha perso la vita mentre tentava semplicemente di portare alla luce la verità. La regista esorta a proteggere i diritti dei giornalisti e a riconoscere il valore delle loro testimonianze come fondamentali per un dibattito pubblico più ampio e informato.
Il film di Farsi, pertanto, non è solo una finestra su Gaza, ma un appello urgente per una maggiore attenzione e giustizia, contribuendo a svegliare le coscienze in un momento in cui l’informazione corre il rischio di essere manipolata.
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